Estratto sentenza
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati(omissis)
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 1694/2010 proposto da:
ALMAVIVA CONTACT S.P.A.,(quale incorporante ATESIA S.P.A.), in
persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA DELLE TRE MADONNE 8, presso lo studio degli
avvocati MARAZZA MAURIZIO e MARAZZA MARCO che la rappresentano e
difendono,giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
B.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO
172, presso lo studio dell’avvocato PANICI PIER LUIGI, che la
rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5340/2009 della CORTE D’APPELLO di ROMA,
depositata il 15/09/2009 r.g.n. 11363/08;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
02/02/2012 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;
udito l’Avvocato MARAZZA MARCO;
udito l’Avvocato PANICI PIER LUIGI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 26-9-2008 il Giudice del lavoro del Tribunale di Roma rigettava la domanda proposta da B.R. nei confronti della Atesia s.p.a., diretta al riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti dal 4-6-2001 e della persistenza del rapporto, con condanna della società al pagamento delle retribuzioni sino al 30-5-2007, o in subordine dell’inefficacia della risoluzione del rapporto con ordine di reintegrazione e risarcimento del danno, oltre al versamento dei contributi, nonchè ad ottenere la condanna della società al pagamento della somma di Euro 72.804,98, oltre accessori, a titolo di differenze retributive e indennità varie.
Con ricorso depositato il 18-12-2008 la B. proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con l’accoglimento delle proprie domande.
La Almaviva Contact s.p.a., incorporante la Atesia s.p.a., si costituiva chiedendo il rigetto dell’appello.
La Corte di Appello di Roma, con sentenza depositata il 15-9-2009, dichiarava la natura subordinata del rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti dal 4-6-2001 e la prosecuzione giuridica dello stesso “sino ad oggi” e condannava la società a risarcire il danno alla lavoratrice, in misura pari alle retribuzioni dovute dalla messa in mora del 30-5-2007 alla data della sentenza, oltre rivalutazione e interessi.
In sintesi la Corte territoriale accertava che nella fattispecie, nonostante il nomen juris attribuito dalle parti al rapporto (dapprima contratti di collaborazione coordinata e continuativa e poi contratti a progetto, succedutisi senza soluzione di continuità per oltre sei anni), in effetti in base alle risultanze istruttorie sussistevano i requisiti essenziali della subordinazione, con la conseguenza che, essendo comunque nulli i termini apposti ai contratti (perchè privi della indicazione del motivo che giustificasse l’assunzione), doveva ritenersi costituito un unico rapporto a tempo indeterminato sin dall’origine e la società doveva essere condannata a risarcire il danno nella misura pari alle retribuzioni spettanti dalla messa in mora. Nel contempo la Corte di merito dichiarava la nullità della domanda concernente le differenze retributive.
Per la cassazione di tale sentenza la Almaviva Contact ha proposto ricorso con un unico complesso motivo.
La B. ha resistito con controricorso.
La Almaviva Contact s.p.a. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE….
Preliminarmente, va rilevata la nullità della procura apposta a margine della memoria ex art. 378 c.p.c., depositata per la Almaviva Contact s.p.a., con la quale in particolare risulta conferito mandato “nel presente giudizio”, oltre agli avv.ti Maurizio Marazza e prof. Marco Marazza (già destinatari della procura a margine del ricorso), anche agli avv. Prof.ssa Luisa Torchia e Tommaso Di Nitto, con la conseguente nullità della costituzione in giudizio di questi ultimi due, ferma restando la validità della costituzione dei primi due (nonchè della memoria, quale dagli stessi depositata, con esclusione del deposito dei documenti allegati, come di seguito precisato).
Nel giudizio di cassazione, infatti, come ripetutamente è stato affermato da questa Corte (nel regime anteriore alla L. n. 69 del 2009), “la procura speciale non può essere rilasciata a margine o in calce ad atti diversi dal ricorso o dal controricorso, poichè l’art. 83 c.p.c., comma 3, nell’elencare gli atti in margine o in calce ai quali può essere apposta la procura speciale, indica con riferimento al giudizio di cassazione soltanto quelli sopra individuati; ne consegue che se la procura non è rilasciata in occasione di tali atti, è necessario il suo conferimento nella forma prevista dal comma 2, cit. art. 83, cioè con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, facenti riferimento agli elementi essenziali del giudizio, quali l’indicazione delle parti e della sentenza impugnata” (v. fra le altre Cass. 9-4-2009 n. 8708, Cass. 20-8-2009 n. 18528).
D’altra parte nella fattispecie, ratione temporis, neppure potrebbe invocarsi (con riguardo alla costituzione degli avv.ti prof.ssa Luisa Torchia e Tommaso Di Nitto) il nuovo testo dell’art. 83 c.p.c., secondo il quale la procura speciale può essere apposta a margine o in calce anche di atti diversi dal ricorso o dal controricorso (come la “memoria di nomina di nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato”), in quanto lo stesso “si applica esclusivamente ai giudizi instaurati in primo grado dopo la data di entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, art. 45 (4 luglio 2009), mentre per i procedimenti instaurati anteriormente a tale data, se la procura non viene rilasciata a margine od in calce al ricorso e al controricorso, si deve provvedere al suo conferimento mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, come previsto dall’art. 83, comma 2” (v. Cass. 26-3-2010 n. 7241, Cass. 28-7-2010 n. 17604).
Sempre in sede preliminare va inoltre dichiarata la inammissibilità del deposito dei documenti allegati alla detta memoria, non riguardando gli stessi la nullità della sentenza impugnata nè la ammissibilità del ricorso, e comunque neppure essendo stati notificati alla controparte ex art. 372 c.p.c..
Con l’unico complesso motivo la società ricorrente, denunciando violazione degli artt. 1362, 1363 e 2094 c.c. nonchè vizio di motivazione, in primo luogo lamenta che la Corte di merito avrebbe ignorato le risultanze di cui ai verbali di altre due cause analoghe ( D.B. e C. c. Atesia) e al verbale ispettivo del 21 agosto 2006, acquisiti, trascurando i relativi elementi di fatto dai quali sarebbe potuta scaturire “una decisione diametralmente opposta a quella adottata”.
La ricorrente inoltre lamenta che la Corte territoriale, decontestualizzando alcune espressioni del contratto individuale, erroneamente avrebbe “tratto la conclusione di un generale obbligo di coordinamento con le esigenze aziendali”, ignorando che il contratto stesso “apprezzato nella sua globalità non rimetteva affatto al datore la facoltà di “conformare” la prestazione dedotta ad oggetto del contratto alle variabili esigenze aziendali, ma individuava preventivamente sia il tipo di attività da svolgere sia l’ambito nel quale questa attività sarebbe stata svolta, per cui anche “l’obbligo di utilizzare un linguaggio appropriato ai contenuti dell’attività professionale, la padronanza del dialogo, la capacità di persuadere, la massima cortesia nei confronti dell’utenza” riguardavano le caratteristiche dell’opera richiesta, del tutto compatibili con le “semplici direttive programmatiche” ed i “controlli estrinseci” propri del lavoro autonomo.
Del resto, per la ricorrente, anche gli altri elementi deponevano per la sussistenza di un lavoro autonomo, in quanto l’assetto contrattuale voluto dalle parti era risultato confermato dal concreto atteggiarsi del rapporto.
In particolare, poi, la ricorrente deduce che:
la Corte di merito non ha considerato che (come emerso dalla testimonianza Be. nella causa D.B.) la partecipazione ai corsi non era obbligatoria;
l’ordine di servizio richiamato riguardava soltanto norme di civile convivenza;
gli assistenti di sala avevano soltanto un ruolo di supervisori, e lungi dall’esercitare un potere direttivo e disciplinare, non esplicavano nei confronti degli operatori alcun potere coercitivo e di controllo;
il badge di entrata serviva solo a sbloccare il tornello, non avvenendo alcuna registrazione della presenza ed il controllo della attività prestata dal singolo addetto, pur consentito dal sistema informatico, non veniva in realtà effettuato in quanto forniva “un dato non rilevante” ai fini della società (come da testimonianza Be. citata);
la distribuzione delle chiamate avveniva in maniera “randomica” ed i compensi erano commisurati ai contatti utili;
il “superstaffaggio” (nella determinazione del numero degli operatori in una determinata fascia oraria) “ovviava non alle assenze fisiologiche, ma alla facoltà dell’operatore di non eseguire la prestazione”;
l’obbligo di dare comunicazione per le assenze superiori a 10 giorni era “giustificato dal fatto che gli operatori utilizzavano credenziali che il cliente metteva a disposizione di Atesia a titolo oneroso”;
non esisteva alcun potere disciplinare nei confronti degli operatori, che erano liberi di recarsi i o meno al lavoro, di dimensionare la prestazione giornaliera e di interromperla.
Le censure risultano in parte inammissibili e in parte infondate.
Come questa Corte ha più volte affermato “requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative.
L’esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo. In sede di legittimità è censurabile solo la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto – incensurabile in tale sede, se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici – la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale” (v. fra le altre Cass. 21-11-2001 n. 14664, Cass. 12-9- 2003 n. 13448, Cass. 6-6-2002 n. 8254, Cass. 4-4-2001 n. 5036, Cass. 3-4-2000 n. 4036, Cass. 16-1-1996 n. 326, nonchè da ultimo Cass. 4-5- 2011 n. 9808).
“Elemento indefettibile – quindi – del rapporto di lavoro subordinato – e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo – è la subordinazione, intesa come vincolo di soggezione personale del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative e non già soltanto al loro risultato, mentre hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria altri elementi del rapporto di lavoro (quali, ad esempio, la collaborazione, l’osservanza di un determinato orario, la continuità della prestazione lavorativa, l’inserimento della prestazione medesima nell’organizzazione aziendale e il coordinamento con l’attività imprenditoriale, l’assenza di rischio per il lavoratore e la forma della retribuzione), i quali – lungi dal surrogare la subordinazione o, comunque, dall’assumere valore decisivo ai fini della prospettata qualificazione del rapporto – possono, tuttavia, essere valutati globalmente, appunto, come indizi della subordinazione stessa, tutte le volte che non ne sia agevole l’apprezzamento diretto a causa di peculiarità delle mansioni, che incidano sull’atteggi arsi del rapporto. Inoltre, non è idoneo a surrogare il criterio della subordinazione nei precisati termini neanche il “nomen iuris” che al rapporto di lavoro sia dato dalle sue stesse parti (cosiddetta “autoqualificazione”), il quale, pur costituendo un elemento dal quale non si può in generale prescindere, assume rilievo decisivo ove l’autoqualificazione non risulti in contrasto con le concrete modalità del rapporto medesimo” (v. Cass. 27-2-2007 n. 4500).
Del resto “ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro, essendo l’iniziale contratto causa di un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esso esprime ed il nomen iuris che utilizza non costituiscono fattori assorbenti, diventando l’esecuzione, per il suo fondamento nella volontà inscritta in ogni atto di esecuzione, la sua inerenza all’attuazione della causa contrattuale e la sua protrazione, non solo strumento d’interpretazione della natura e della causa del rapporto di lavoro (ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2), bensì anche espressione di una nuova eventuale volontà delle parti che, in quanto posteriore, modifica la volontà iniziale conferendo, al rapporto, un nuovo assetto negoziale” (v. Cass. 5-7- 2006 n. 15327).
Pertanto, “sia nell’ipotesi in cui le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamente dichiarato di volere un rapporto di lavoro autonomo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia, sia nel caso in cui l’espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nell’ipotesi in cui, dopo aver voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento del rapporto le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione, il giudice di merito, cui compete di dare l’esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve a tal fine attribuire valore prevalente – rispetto al “nomen juris” adoperato in sede di conclusione del contratto – al comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto stesso” (v. Cass. 10-4-2000 n. 4533, Cass. 21-7-2000 n. 9617, Cass. 26-6-2001 n. 8407).
Peraltro anche nella materia de qua va ribadito l’indirizzo generale consolidato in base al quale “la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (v. Cass. 9-4-2001 n. 5231, Cass. 15-4-2004 n. 7201, Cass. 7-8-2003 n. 11933, Cass. 5-10-2006 n. 21412). Del resto, come pure è stato più volte precisatogli controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 n. 5 c.p.c., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa”, (v., fra le altre, da ultimo Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766).
Orbene nella fattispecie la Corte d’Appello ha rilevato:
che “l’attività si svolgeva all’interno dei locali aziendali e che la lavoratrice doveva coordinarsi con le esigenze organizzative aziendali e quindi era pienamente inserita nell’organizzazione della società, utilizzando strumenti e mezzi di quest’ultima, senza alcun rischio d’impresa”;
che dalle risultanze istruttorie era emerso “anche uno stringente assoggettamento al potere di controllo e direttivo, poichè l’attività dell’appellante era sottoposta in primo luogo non tanto a generiche direttive, ma ad istruzioni specifiche, sia nell’ambito di “briefing finalizzati a fornire informazioni e specifiche in merito alle prestazioni contrattuali” (cfr, regolamenti integrativi dei contratti), sia con puntuali ordini di servizio, sia a seguito dell’intervento dell’assistente di sala”;
che, in sostanza “il concorso congiunto del sistema informatico, in grado di controllare l’attività del telefonista in tutti i suoi aspetti, e della vigilanza dell’assistente di sala” mostrava “l’esistenza di un controllo particolarmente accentuato ed invasivo, non usuale neppure per la maggior parte dei rapporti subordinati esistenti e quindi inconciliabile con il rapporto autonomo”;
che nel caso in esame la società non aveva dedotto nè provato la violazione di obblighi contrattuali senza reazioni disciplinari” con riguardo alla B. e che comunque, avendo i contratti di collaborazione una durata di pochi mesi “ad un’eventuale comportamento disciplinarmente rilevante il committente poteva reagire semplicemente con il mancato rinnovo del contratto” (come in effetti emerso dalla testimonianza del responsabile degli assistenti di sala Be. nella causa C.;
che, infine, la possibilità per la lavoratrice “di recarsi o meno a lavoro e di effettuare un orario di lavoro autodeterminato pur nell’ambito delle sei ore di turno previste” non costituiva elemento decisivo per affermare la natura autonoma del rapporto, come ritenuto dal giudice di primo grado.
Tale accertamento di fatto, conforme ai principi di diritto sopra ribaditi, risulta altresì congruamente motivato e resiste alle censure della società ricorrente.
Una volta, infatti, accertato, nel concreto atteggiarsi del rapporto, il vincolo di soggezione del lavoratore con inserimento nell’organizzazione aziendale, correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che non poteva assumere rilevanza contraria la non continuità della prestazione e neppure la mancata osservanza di un preciso orario (così come all’uopo irrilevante era la forma della retribuzione).
Per il resto la ricorrente in sostanza si limita a ribadire la propria lettura delle risultanze istruttorie, da un lato lamentando la scarsa considerazione di alcune (peraltro neppure riportandone compiutamente il contenuto, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, v. Cass. 17-7-.2007 n. 15952, Cass. 27-2- 2009 n. 4849), e dall’altro invocando una inammissibile revisione del “ragionamento decisorio”, non sussumibile nel controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5.
Il ricorso va così respinto, non essendo stata, peraltro, avanzata alcuna ulteriore censura, che riguardi in qualche modo le conseguenze economiche della declaratoria della natura subordinata del rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti dal 4-6-2001 ed in particolare il capo relativo al risarcimento del danno, come liquidato nell’impugnata sentenza.
In proposito, rileva il Collegio che, con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società ricorrente, invoca l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 50, in vigore dal 24 novembre 2010.
Orbene, a prescindere da ogni altra considerazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070, nonchè con riferimento all’art. 32 della stessa legge n. 183 del 2010, in tema di contratti a termine dei dipendenti postali, fra le numerose altre Cass. 26-1- 2011 n. 1785).
Tale condizione non sussiste nella fattispecie.
Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente in ragione della soccombenza va condannata al pagamento delle spese in favore della B. con attribuzione all’avv. Pier Luigi Panici per dichiarazione di anticipo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla B. le spese liquidate in Euro 70,00 oltre Euro 4.000,00 di onorari, oltre spese generali, IVA e CPA, con attribuzione all’avv. Pier Luigi Panici.
Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2012.
Sentenza depositata in Cancelleria il 21 marzo 2012