Licenziamento disciplinare per la timbratura del budge e assenza dal luogo di lavoro
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda proposta da (…) e (…) proposta nei confronti della società (…) avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento disciplinare loro intimato, in data 11 dicembre 2001, dalla predetta società in ragione della timbratura in uscita del badge ad opera del (…) anche per il (…) e la (…) non presenti in azienda.
La Corte partenopea accertava, sulla base delle dichiarazioni -ritenute circostanziate puntuali e concordanti- rese dai testi (…) e (…) ed il (…) il giorno 27 novembre 2011 il (…) ed il (…) benché risultanti regolarmente al lavoro sino alle ore 16,45, ora in cui il (…) timbrò in uscita i loro cartellini marcatempo, in realtà erano stati di fatto assenti dallo stabilimento per l’intera giornata lavorativa, così come asserito nelle lettere di contestazioni. Tanto, sottolineava la Corte territoriale, doveva asserirsi per la maggiore attendibilità delle dichiarazioni testi rispetto a quelle del (…) e (…) anche perché le modalità temporali riferite da costoro, secondo cui nella giornata del 27 novembre 2011 avrebbero visto in azienda il (…) ed il (…) erano in conflitto con le versioni fornite sul punto da questi ultimi e contrastanti tra loro.
Rilevava, poi, la Corte del merito che anche per l’addebito relativo alla giornata del 26 novembre 2011 sussistevano, in base alla deposizione del teste (…) gravi precisi e concordanti elementi atti a provarne la sussistenza.
Stante secondo la Corte territoriale, l’assenza del (…) e (…) dal posto di lavoro per l’intera giornata del 27 novembre 2011 conseguiva che la condotta posta in essere dai lavoratori ricorrenti in tale giorno fu frutto di un preventivo accordo diretto a far risultare fittiziamente ottemperato l’obbligo di regolare presenza sul posto di lavoro dei due nominati dipendenti.
Pertanto, rimarcava la Corte napoletana, la condotta contestata appariva connotata da un elemento particolarmente intenso e fraudolento che implicava la violazione di fondamentali doveri scaturenti dal rapporto di lavoro subordinato, espressamente ribaditi anche dall’art. 18 del CCNL.
Tenuto conto, poi, concludeva la Corte del merito, che la condotta contestata era stata posta in essere anche il giorno precedente non vi erano dubbi circa l’idoneità della stessa a ledere la fiducia dell’Azienda nella futura correttezza dell’adempimento della prestazione lavorativa.
Tale conclusione, a parere dei giudici di appello, trovava conforto altresì nelle norme del codice disciplinare e in quelle del CCNL che prevedevano il licenziamento senza preavviso di fatti che costituiscono delitto a termine di legge, come appunto l’illecito ascritto ai ricorrenti idoneo ad integrare gli estremi della fattispecie di cui all’art. 640 cp.
Avverso questa sentenza i lavoratori in epigrafe ricorrono in cassazione sulla base di due censure.
Resiste con controricorso la società intimata che, in via preliminare, eccepisce l’inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366 bis cpc.
Motivi della decisione..
Con il primo motivo del ricorso i lavoratori, deducendo violazione degli art. 115 e 116 c.p.c., 2967 cc e 5 Legge n. 604 del 1966 in relazione all’art. 2119 cc, per erronea valutazione della prova testimoniale, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, formulano il seguente quesito: “se ai fini dell’accertamento di una giusta causa dì licenziamento, la valutazione delle risultanza della prova testimoniale ed il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri non determini violazione degli artt. 115, 116 cpc, 2967 cc e 5 L. 604/66, nell’ipotesi in cui la motivazione della sentenza sia insufficiente o contraddittoria ed il Giudice di merito, con apprezzamenti di fatto a lui riservati, ponga a fondamento della sua decisione una fonte di prova ad esclusione di altra senza indicare le ragioni del suo convincimento”.
Con la seconda censura i ricorrenti, denunciando violazione degli artt. 7 della legge n. 300 del 1970 e 2119 c.c. in relazione agli artt. 18, 24 e 25 CCNL nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, formulano il seguente quesito: “se nella valutazione delle risultanze processuali circa la giusta causa di licenziamento per la determinazione della consistenza della infrazione disciplinare non rilevi la circostanza che il datore di lavoro non ha rispettato il principio della proporzionalità, tenuto conto della disciplina sindacale dì settore, dovendo inoltre esercitare il potere disciplinare con gradualità prima di ricorrere alla sanzione espulsiva”.
Rileva la Corte che le censure non sono formulate secondo le prescrizioni di cui all’ art. 366 bis cpc in quanto, essendo dedotta contemporaneamente la violazione di norma dì legge di cui al n. 3 dell’art. 360 cpc ed il vizio di motivazione ex n. 5 del citato art. 360 cpc, non è consentito a questo giudice di legittimità stabilire quali denunce siano riferibili alla violazione di legge e quali al vizio di motivazione.
Del resto, non vi è, per ciascun motivo, formulazione di quesiti plurimi destinati alla specificazione distinta della violazione di legge e del vizio di motivazione, anzi vi è, per ogni censura, un singolo quesito nel quale confluiscono insieme rilievi relativi all’una ed all’ altra delle ipotesi di cui ai menzionati numeri 3 e 5 dell’art. 360 cpc.
Secondo giurisprudenza di legittimità,infatti, non è conforme alle disposizioni di cui al citato art. 366 bis cpc il motivo di ricorso nel cui contesto trovino formulazione, al tempo stesso, censure aventi ad oggetto violazione di legge e vizi della motivazione, ciò costituendo una negazione della regola di chiarezza posta dalla citata norma (nel senso che ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione) giacché si affida alla Corte di cassazione il compito di enucleare dalla mescolanza dei motivi la parte concernente il vizio di motivazione, che invece deve avere una autonoma collocazione (V. Cass. 11 aprile 2G03 n.947 0 e Cass. 23 luglio 2008 n.20355 cui adde, nello stesso senso, Cass. 29 febbraio 2003 n.5471).
Né è consentito a questa Corte di estrapolare dai singoli quesiti di diritto e dalla parte argomentativa quali passaggi siano riferibili al vizio dì motivazione e quali al violazione di legge, diversamente sarebbe elusa la ratio dell’art, 356 bis cpc. (Cass. 5.U. 11 marzo 2008 n. 6420).
Tanto, del resto, corrisponde alla regola della specificità dei motivi del ricorso ex art. 366 n.4 cpc.
Diversamente significherebbe demandare a questa Corte di sostituirsi alla parte nella individuazione concreta della situazione di fatto sottesa alla censura (Cass. 23 marzo 2005 n. 6225), compito questo, invece, che nel nostro ordinamento processuale non è previsto.
D’altro canto non sono trascritte, in violazione del principio di autosufficienza, nel ricorso le risultanze istruttorie di cui si denuncia l’erronea valutazione e le clausole contrattuali che si assumono non correttamente applicate. Sulla base delle esposte considerazioni il ricorso va rigettato non potendo le censure, spiegate dai ricorrenti, trovare ingresso, in questa sede di legittimità, in quanto dette censure finiscono per tradursi ih una richiesta di rivisitazione dei fatti di causa ed in una istanza di rivalutazione delle risultanze istruttorie già oggetto di motivato esame da parte del giudice di appello la cui decisione va confermata.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio di legittimità liquidate in € 50,00 per esborsi, oltre € 3.000,00 per onorario ed oltre accessori di legge.